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Il reato di diffamazione nel contesto digitale.

  • annalisalospinuso
  • 18 apr
  • Tempo di lettura: 5 min


Il reato di diffamazione, disciplinato dall’art. 595 del Codice penale, rappresenta una delle fattispecie più rilevanti tra i delitti contro l’onore. Esso si configura quando taluno, comunicando con più persone, offende la reputazione altrui in assenza del soggetto interessato. Il bene giuridico tutelato è la reputazione, intesa come l’opinione che la collettività ha di un determinato individuo, distinta dall’onore soggettivo (cioè, la percezione che il soggetto ha di sé stesso).

La norma prevede diverse soglie di gravità, a seconda delle modalità con cui l’offesa è perpetrata: la pena è aggravata qualora l’offesa sia recata con il mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, oppure in atto pubblico. In tali casi la sanzione può essere la reclusione fino a tre anni o una multa consistente, proprio in virtù della potenziale amplificazione del danno all’immagine del soggetto diffamato.

Elemento imprescindibile per l’integrazione del reato è il dolo generico: l’agente deve essere consapevole di arrecare un’offesa alla reputazione altrui e volerla comunicare a più persone. Non è necessario che vi sia un’intenzione persecutoria o vendicativa, è sufficiente la consapevolezza e volontà del contenuto lesivo.

La diffamazione si distingue, altresì, dalla critica legittima, che può giustificarsi nei limiti della verità dei fatti, dell’interesse pubblico e della continenza espressiva. Quando tali limiti vengono superati – per esempio attraverso l’utilizzo di espressioni gratuitamente ingiuriose o allusive – la condotta diviene penalmente rilevante.


Diffamazione e Social Network.

Nell'era digitale, la diffusione di contenuti attraverso i cd. social network ha sollevato nuove questioni giuridiche, considerando la vasta platea di utenti potenzialmente raggiungibili.

È difatti noto che "Facebook" o “Instagram”, ad oggi considerati i più diffusi e popolari dei social network ad accesso gratuito, siano una vera e propria rete sociale in cui può essere coinvolto un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet, i quali, tramite tali piattaforme, entrano in relazione tra loro pubblicando e/o scambiandosi contenuti che sono visibili ad altri utenti facenti parte dello stesso gruppo o comunque a questo collegati.

La maggioranza dei social ormai consente agli utenti di fruire di alcuni servizi tra i quali, a titolo di mero esempio, l'invio e la ricezione di messaggi o il rilascio di commenti, permettendo inoltre di decidere di impostare diversi livelli di condivisione di tali informazioni (profilo pubblico o privato).

Risulta, dunque, evidente che chi fa uso di tali social network sia consapevole (anzi in genere tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto) del fatto che altre persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, possano prendere visione di quanto pubblicato in rete.

È ormai da tempo, pertanto, che la giurisprudenza si confronta con le possibili problematiche derivanti proprio dall’uso di tali piattaforme, delineando i confini che intercorrono tra libertà di espressione e tutela dell'onore.​


Come in più occasioni affermato dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di un social network (come Instagram o Facebook) integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'art. 595, comma 3, c.p., sotto il profilo dell'offesa arrecata « con qualsiasi altro mezzo di pubblicità » diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone.

Sul punto si è altresì chiarito che, in tema di delitti contro l'onore, si versa nell'ipotesi dell'ingiuria (depenalizzata dal D.Lgs. 7/2016 ma comunque rilevante in sede civile) aggravata dalla presenza di più persone quando siano contestualmente presenti — fisicamente, nella stessa unità di tempo e di luogo, o « virtualmente », nel caso di utilizzo delle moderne tecnologie di comunicazione — l'offeso, i terzi e lo stesso offensore, mentre, ove manchi la possibilità di interlocuzione diretta tra autore e destinatario dell'offesa, che resti deprivato della possibilità di replica, vale a dire quando tra l'offensore e l'offeso non sia possibile instaurare un rapporto diretto, reale o virtuale, che garantisca a quest'ultimo un contraddittorio immediato, attuato con modalità tali da assicurare una sostanziale « parità delle armi », si configura il delitto di diffamazione (cfr., ex plurimisCass. pen., Sez. VI, 23 marzo 2023, n. 17563; Cass. pen., Sez. V, 10 novembre 2022, n. 5982).

In applicazione di tali principi è stato inoltre ritenuto che, sebbene un'offesa rivolta ad un unico partecipante di una chat di un social network certamente costituisce ingiuria, ovvero un mero illecito amministrativo, integra invece  « il delitto di diffamazione, e non la fattispecie depenalizzata di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, l'invio di messaggi contenenti espressioni offensive nei confronti della persona offesa su una “chatcondivisa anche da altri soggetti, nel caso in cui la prima non li abbia percepiti nell'immediatezza, in quanto non collegata al momento del loro recapito » (cfr. Cass. pen., Sez. V, 10 giugno 2022, n. 28675).

È bene precisare che la diffusione di contenuti offensivi sui social network può configurare il reato di diffamazione anche in assenza di riferimenti nominativi espliciti, sempre se il contesto renda identificabile la persona offesa.


È fondamentale, pertanto, utilizzare i social media con responsabilità, evitando di pubblicare contenuti che possano ledere la reputazione altrui.

Ancor più se si considera che, secondo un recente arresto, la reiterata delegittimazione della persona offesa, attuata tramite una serie di condotte diffamatorie pubblicate sui social network e capaci di travalicare i limiti del legittimo esercizio della libertà di espressione e informazione, può configurare uno stillicidio persecutorio (il cd. reato di stalking) anche se non direttamente indirizzato alla vittima, qualora sia idonea a creare uno stato d'ansia e turbamento, determinato dalla costante paura di essere vittima di attività denigratoria, fino a costringerla a modificare le proprie abitudini di vita (v. Cassazione penale sez. V, 02/10/2024, n.43089).


Ma quali parole possono integrare il reato di diffamazione?

Ecco un elenco (non esaustivo) di espressioni che la giurisprudenza ha ritenuto diffamatorie, poiché idonee a ledere la reputazione altrui se pronunciate in assenza della persona offesa ma alla presenza di terzi:


-"Truffatore" – Attribuisce un comportamento penalmente rilevante;

-"Ladro" – Implica un'accusa infamante, anche se non formalizzata;

- "Corrotto" / "Colluso" – Può ledere gravemente la reputazione, specie se riferito a un pubblico ufficiale;

-"Incapace" / "Ignorante" – Se rivolto in ambito lavorativo, può danneggiare l'immagine professionale;

-"Put**na" et similia – Offese gravi alla dignità della donna sono spesso punite con rigore;-"Tossicodipendente" / "Alcolizzato" – Etichette stigmatizzanti e lesive della persona;

-"Psicopatico" / "Malato di mente" – Espressioni denigratorie se usate con intento offensivo;

-"Fallito" / "Buono a nulla"/ "Inetto" – Possono ledere la reputazione sociale e lavorativa;

-"Delinquente" / "Criminale" / "Mafioso"– Accuse gravi, specie in assenza di condanne;

-"Parassita" / "Mantenuto" / "Sanguisuga" – Giudizi moralmente disprezzanti, lesivi della reputazione personale.

 

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